L’IDOLO DELLE BLATTE
«Parmenide: E allora, Socrate, di fronte a oggetti che sembrerebbero ridicoli
come i capelli, il fango, il sudiciume, oppure qualcos’altro senza valore e di pochissimo conto,
ti trovi in difficoltà circa la questione se occorra ammettere o meno l’esistenza di un eidos?
Nient’affatto – rispose Socrate – Pensare che ci sia un eidos anche di esse mi sembra veramente assurdo»
(Platone, Parmenide, 131d)
«Ma se buoi, cavalli e leoni avessero le mani e sapessero disegnare...
i cavalli disegnerebbero gli dei simili a cavalli, e i buoi gli dei simili a buoi»
(Senofane di Colofone)
«La blatta da sola non esiste – l’idolo delle blatte è unico e multiplo.
La blatta sa fuggire – l’idolo delle blatte è eternamente immobile,
perché nulla potrà mai minacciarlo.
La blatta ha antenne – l’idolo delle blatte non ha antenne,
ma occhi ben aperti per giudicare.
La blatta è oscurità nell’oscurità – l’idolo delle blatte splende
come oro puro al sole.
La blatta è schiacciata al suolo – l’idolo delle blatte è assoluto
verticale.
La blatta è piatta – l’idolo delle blatte tocca l’infinito
con le sue creste.
La blatta è il suo uovo – l’idolo delle blatte ha in sé
i suoi eterni embrioni»
(Canto anonimo delle blatte)
A chiunque abbia vissuto per anni in una grotta umida, in un tubo di scarico o in un’acropoli è accaduto prima o poi di chiedersi in che modo le blatte si rappresentino la loro divinità, e insomma che forma abbia l’idolo delle blatte.
La risposta è molto semplice, e ci viene dalle blatte stesse.
Ma occorre distinguere, anzitutto, tra blatta e blatta.
La blatta genuina, originaria, l’Ur-blatta, per cominciare, non ha tempo per gli idoli. Il suo attivismo è isterico. La sua isteria presentimento contagioso dell’apocalisse. La blatta purosangue è un bolide medievale alimentato a terrore – terrore ininterrotto che il cielo le cada sulla testa, che il cielo la schiacci in eterno, inferno realizzato. È questo terrore iperbolico che si trasmette all’uomo per fulmineo contagio. L’incontro con la vera blatta è l’incontro istantaneo, aniconico, con l’apocalisse, ovvero con l’origine. Nulla di più lontano dal ribrezzo.
Ma la vera blatta è rara come il diamante nero. Di più. Forse nessuno l’ha mai vista davvero, e soprattutto nessuno ha mai udito il suo urlo stridulo, insostenibile, acuto come una cometa coltello o un limone villoso o un fischio di nano di cristallo.
Più agevole è incontrare la blatta media, inautentica, domestica, commensale. Essa è, come tutti, principalmente un’asola di se stessa, un’atleta della rimozione. Come la vera blatta, la blatta media è una virtuosa della fuga. Fuga significa però qui principalmente fuga da se stessa, dal malumore[1]: distrazione.
Se la vera blatta ha il suo archetipo in Bach, la blatta media degenera troppo spesso nel bacherozzo (nella musica pop, nella sgambata da balera, nello stupefacente, nella cucaracha)[2].
Benché muta, il suo sprint rimane polifonico – polifonia di antenne, elitre e zampine sfrigolanti. Si tratta tuttavia della frenesia più esteriore del contrappunto, del coté consolatorio del sillogismo musicale, della vanitas metallica della partitura d’organo: virtuosismo barocco della fuga come eterna procrastinazione dell’eschaton. La frenesia mondana e allo stesso tempo immonda della blatta orripila e ad un tempo conforta proprio in quanto vanitas al quadrato, vanità di vanità, mancanza di mancanza, fessura di fessura, buco di buco, orifizio d’orifizio, tripo di tripo, ano d’ano. Essa accoppia l’aerodinamica fuggiasca alla logica implacabile del pertugio come rinvio del giorno dell’(auto)giudizio: dilazione dell’estremo buco nel tempo, variazione intorno all’estrema asola cronologica, dilatazione dell’extrema ratio.
Così la blatta incarna «il nostro bisogno di consolazione»[3] e onnipotenza, la fase del più amato e odiato buco. Ma essa stessa ha bisogno di consolazione e onnipotenza.
Da sempre schiacciata al suolo, destinata a un’esistenza rasoterra, votata alla nicchia, al pertugio, alla fessura, la blatta medita rimugina, recrimina, immagina; ed immagina la blatta superiore, l’oltreblatta o superblatta, come creatura goticamente edificata. L’oltreblatta è blatta in altezza, pertica, totem, palafitta, cattedrale vivente, guglia universale, pinnacolo cosmico, ascesa di infiniti, immobili trampoli, glabri e potenti come colonne, pura manifestazione di un’essenza verticale, eidos eretto ad idolo.
Analogamente: alla nera monotonia d’una coccia piatta e liscia, sempiterno retaggio di oscure, vergognose, preistoriche ritirate nelle più lerce crepe del carbonifero, la blatta divina, inattaccabile, oppone l’ostentazione ascetica dell’oro, l’armonia superiore di creste scintillanti – «creste di tutto il creato rosse d’aurora, articolazioni di luce, anditi, scale, troni»[4] – che si succedono sempre uguali come onde di mari specchio o poppe sireniche o gobbe cherubiche o mute modulazioni di canto: pure Stimmungen.
La blatta media, avventizia, si nutre di pettegolezzi da seminterrato, di chiacchiere da pertugio sempre uguali, banalità nasali, sussurri gregari, ciarle atonali, in fondo biografiche onomatopee (bla bla bla), perché tutte le blatte sono una blatta, e ogni blatta è ogni altra blatta. Non potrebbe esistere se non nell’intreccio ininterrotto di antenne e flabelli e sensori e ricettori, nel gossip da battiscopa come perenne scambio al fioretto e rispecchiamento esatto di sé. La blatta divina è priva di antenne. Nella sua divina autosufficienza aerodinamica e nella sua infinita autocreazione – antenna di sé – l’idolo delle blatte non ha nulla da comunicare a nessuno, e nulla da ricevere. Coi suoi occhi immensi giudica ma non dice. Ha in sé le sue parole.
E soprattutto ha in sé la sua prole.
Non vi è blatta che non sia rabbrividita almeno una volta, e per sempre, al suono fatale della morte di un’altra blatta. Ovvero della propria morte, perché ogni blatta, lo abbiam detto, è tutte le altre. La morte media della blatta, si sa, ha il fragore croccante e isterico del caramello bruciato misto a sconquasso molle d’organi e zoccolo estivo. Come evento di rottura essa si colloca nel tragico punto di intersezione tra il torrone cheratinoso da fiera e il candore tiepido del paté viscerale. La morte della blatta non potremo mai concepirla interamente (nemmeno, forse, se fossimo aragoste o chiocciole o grilli o tartarughe). Ma possiamo averne una vaga percezione tattile stringendo fortissimamente tra le dita un cubo di burro che nasconda il gambo aculeato di una rosa. Orribile vero? Ma è nulla rispetto allo sconforto della blatta per la perdita delle sue uova. Decapitate una blatta e sopravviverà per giorni. Ma togliete ad una blatta i suoi ovetti e morirà di dolore in pochi minuti. In ciò la morte della blatta supera per orrore quella analoga (croccante e molle, flaccida e spinosa) della locusta: la blatta porta con sé le sue uova, vive pei suoi albumi. Una blatta schiacciata non rappresenta solo un’omicidio, ma un eccidio, una frittata mortuaria, una strage d’innocenti, una carneficina puerile, un’ecatombe erodica, un massacro embrionale, un olocausto infantile, uno sfregio alla specie. Perché ogni blatta è la specie. Ed ogni uovo è la blatta.
La blatta divina, si diceva, ha in sé la sua prole. E la mostra con spavalderia a un tempo ontogenetica e filogenetica. Essa è – non ha – la sua ooteca. È i suoi embrioni. L’idolo delle blatte è uno e multiplo. Nessuno potrà mai schiacciarlo, e nessuno potrà mai schiacciare la sua stirpe.
Se qualcuno potesse schiacciare l’idolo delle blatte, infatti, dovrebbe trattarsi di un Dio superiore.
Ma in quel caso l’idolo schiacciato ne diventerebbe pur sempre l’icona, la porta regale: l’ineffabile traccia su fondo oro[5].
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Verrà la blatta, e avrà i tuoi occhi.
[1] Il malumore dello scarafaggio è sempre, principalmente, malumore di sé. Non a caso in francese lo scarafaggio è appellato «cafard», ed essere di malumore è: «avoir le cafard». Il malumore del «cafard» consiste dunque nell’aver se stesso.
[2] È noto: il termine inglese «cockroach» per blatta deriva non solo dalla morte onomatopeica dello scarafaggio schiacciato (kkkroach!), ma dallo spagnolo «cucaracha», ossia da «cuca», una sorta di oscuro bruco. La celebre canzone La cucaracha recita: «La cucaracha la cucaracha/Ya no puede caminar/Porque no tiene, porque le falta/la patita principal», ovvero: «Lo scarafaggio, lo scarafaggio/Non riesce a camminar/Perché non ha, perché gli manca/la zampetta principal». Ma la «zampetta principal», come l’allegoria nel Trauerspiel, può significare ogni cosa, tra cui la marijuana («Marihuana que fumar»). In questo senso la cucaracha è sinonimo dell’italianissimo «spinello».
[3] «Vårt behov av tröst». Lo svedese è sicuramente la lingua più simile al muto idioma blattoide, tutto spigoli impronunciabili e punti pungenti e virgole forficule e oscuri pinnacoli e guizzi vetrosi e zilli euclidei e nuances minerali e strappi dodecafonici e colpi d’antenna acuminati. Lo svedese perfetto, compiuto, originario è il silenzio tetragono, metallico, atonale dell’idolo delle blatte. Scrive non a caso lo stesso Stig Dagerman: «la mia potenza sarà illimitata il giorno in cui avrò solo il mio silenzio per difendere la mia inviolabilità, perché non esiste ascia capace di intaccare un silenzio vivente».
[4] Il testo della seconda Elegia duinese di Rilke recita in verità: «Voi, primi perfetti, viziati della Creazione,/profili di vette, creste di tutto il Creato/rosse d’aurore, – polline della divinità in fiore,/articolazioni di luce, anditi, scale, troni,/spazi d’essenza, scudi di delizia, tumulti/di sentimento in tempeste d’entusiasmo, e a un tratto, uno per uno,/specchi: la bellezza che da voi defluisce/la riattingete nei vostri volti./[…] Oh alzar d’occhi:/nuova, calda, fuggitiva onda del cuore –/ahimè: eppure siamo questo, noi». Ma questo già lo sai, o lettore, nel tuo larvale cuore di larva.
[5] In questo senso alcune blatte accademiche sofistiche hanno evidenziato l’affinità tra idolo e icona, sostenendo che in fondo essi potrebbero coincidere quanto al nucleo essenziale: l’ineffabile paradosso dell’assoluto nel particolare, del verticale nel piatto, dell’ascesa nello schiacciamento. Si tratta tuttavia di sottigliezze teologiche detestate dalle blatte medie, che ignorano Blumenberg e Vernant, non meno che Marion e Florenskij.
(2011)
Bronzo lucidato; occhi in vetro dipinto; scomponibile in 52 elementi;
Dimensioni: 38,5 cm (H) x 23,5 cm x 13,5 cm;
Tecnica: modello originale in resina; poi fusioni a cera persa e microfusioni in gusci ceramici;
Fonderia Bonvicini (Verona)
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