P(O)ENDULUM
Ritratto di Edgar Poe
P(O)ENDULUM
«L'uomo non cede
agli angeli e alla morte,
se non per debolezza
della sua minuscola volontà»
(E. Poe)
«Io so che in nessun altro fenomeno dell'esistenza
c'è un altrettanto furibonda, totale,
essenziale volontà di vita che nel feto.
La sua ansia di attuare la propria potenzialità,
ripercorrendo fulmineamente la storia del genere umano,
ha qualcosa di irresistibile e perciò di assoluto»
(P.P. Pasolini)
«Pozzo: mi presento: Pozzo […]
Pozzo (con voce terribile): Io sono Pozzo! (pausa)
Questo nome non vi dice niente? (pausa)
Vi ho chiesto se questo nome non vi dice niente!»
(S. Beckett)
POZZO
Un anello vertebrato, dalla silhouette vagamente embrionale, ovvero un utero occhiuto, una parvenza di bocca dentata, un pendolo-oculo.
«Perché il ritratto di Edgar Poe dovrebbe avere proprio questa forma?», dirà l'osservatore molesto – l'io mancato, l'immancabile mancanza di noi, il William Wilson, il vuoto; meglio: il sotto-vuoto, la lacuna, la cruna d'ago, d'agone e d'agonia, il debito, l'ammanco, il manque, il buco originario, l'arche-tripo, la non comune fossa che per comodità chiameremo semplicemente «Pozzo».
Eccoci così alla resa dei conti: chiamare per nome una parola.
PENDOLO
PERIODO A
Sì, o querulo Pozzo, ventriloquo di te stesso, risparmiamoci almeno l'ipocrisia dell'inizio.
Ridicolo pensare che ci sia un inizio, un punto di partenza nella cella universale – cella di celle, gabbia di cellule – in cui da sempre oscilliamo.
L'inizio è già oscillazione.
E l'oscillazione già ritorno.
Ritorno ad inizio già iniziato.
Ritraiamoci dunque dall'inizio.
PERIODO B
Un ritratto è sempre anzitutto il ritratto di chi lo fa.
Si tratta sempre di un'occasione per ritornare a sé, per ritrarsi.
Ritrarsi in occasione di un altro.
Ritrarsi, annidarsi nel ventre dell'essere altrui, reinfetarsi, farsi cellula.
E così rinascere insieme.
PERIODO A
Non è un parassita, il ritrattista.
Piuttosto potenza.
Potenza d'altro nelle viscere dello stesso.
Non tenia.
Semmai neotenía.
Potenzialità dell'altro, embrione di altro.
La sua quiete apparente è energia potenziale di pendolo.
PERIODO B
D'altronde non è forse l'embrione sempre embrione di pendolo, pendolo in nuce, massa ignara che oscilla senza eccessiva gravità intorno al suo cordone ombelicale? Non è forse ogni omuncolo fetale – e ogni femme foetale, ovviamente – poco più che bulbo oculare trattenuto dall'esile cordicella materna, pupa e pupilla? Non è forse ogni embrione occhio materno per procura, ritrattista esemplare in quanto occhio d'occhio, lente vivente, interno specchio di genitrice, sonda destinata da eterno inizio alla viscerale auto-ammirazione di una madre-abisso, periscopio con cui ella esplora finalmente il suo ventre-pozzo? Non coaguliamo insomma già scalciando in un abisso liquido, in un pozzo carneo, sospesi come pendoli tra l'essere e il nulla, pendagli da forcipe, avanzi di galera uterina, prigioni imprigionate dalla nascita, prigioni di prigioni, piccoli occhi galleggianti tra la luce del mondo e la tenebra della cella madre, tra la nostalgia della nascita e la nascita della nostalgia che fino alla morte saremo?
PERIODO A
Da qui, dal nomos fisiologico, risaliamo alla superficie.
Alla fisionomia.
In nome della somiglianza.
Perché la croce di ogni ritratto, si sa, è la somiglianza, la questione della mimesi.
PERIODO B
Ma somiglianza rispetto a cosa?
La vera fisionomia di un autore – ad esempio – è quella fisica o quella letteraria?
Forse la sua opera è meno reale del suo corpo?
Ma qual è il criterio per valutare questa realtà?
La bruta materialità?
PERIODO A
In questo caso il suo corpo, ormai distrutto – a maggior ragione se ancora vivente: non ogni defunto autore può essere un autore defunto, e tantomeno un defunto d'autore, ha chiarito Machado –, corpo invisibile, e in fondo da sempre ignoto ai lettori, sarebbe meno fantastico di un'opera che ancora sopravvive e parla con voce propria? È forse il suo corpo più reale del suo «corpus»?
Di più: non è ciò che ha nome «autore» una finzione retrospettiva, l'ombra che un'opera proietta alla luce della sua sopravvivenza, un'inestricabile matassa di segni di segni, di finzioni di finzioni raggrumate in nome? Non è l'autore una aberrazione, un'unità che non possiamo fare a meno di vedere pur sapendo che si tratta di una nostra illusione – come non possiamo fare a meno di scoprire un nitido paesaggio nelle venature del marmo o un viso in un groviglio di nuvole o una farfalla in una macchia? Non si tratta forse dell'ingannevole parvenza di senso di casuali combinazioni di segni?
PERIODO B
O sì, Pozzo senza fondo, vacuo che non sei altro, imitatore della tua stessa voce, orifictio: l'autore è davvero finzione.
Finzione della sua opera, finzione di finzione (nelle due oscillazioni del genitivo).
E il ritratto di un autore – in particolare quello di un autore fantastico – dovrebbe tentare di prender forma proprio nel luogo di intersezione tra soma e sema, o meglio nell'arco di oscillazione tra la sfera somatica dell'autore e la fisionomia della sua opera.
PERIODO A
E perché mai? Forse per mostrare il legame tra le due, ammesso che esista?
PERIODO B
Certamente! Perché questo legame, in quanto somiglianza immateriale, si dà solo nel ritratto – ed è ciò che propriamente dà senso al ritratto in quanto forma – senza tuttavia essere solo un'invenzione, una pura finzione del ritratto.
PERIODO A
Bada bene, o ridicolo Pozzo, o puticolo, goloso di stelle e di tutto ciò che non è nel pozzo che sei: non parliamo della corrispondenza con una mai troppo presunta e in fondo fin troppo reale realtà esterna, ma di una somiglianza immateriale che non ha necessariamente a che fare con la fedeltà al modello, e che è piuttosto la condizione di possibilità di ogni rimando e di ogni corrispondenza. Del resto, o pozzo di un Pozzo, non ti sarà sfuggito il fatto che la somiglianza ha tanto poco a che fare con la corrispondenza che la dissomiglianza si insinua sino al limite (estremo) della congruenza, e perfino nell'interstizio (inesistente) dell'identità. Pensa, o pozzo detto «Pozzo», alle immagini doppie e alle citazioni. Non hai qui due figure perfettamente corrispondenti, congruenti, sovrapponibili, identiche, che non si somigliano affatto? Ancor meglio: non hai una sola immagine che non somiglia affatto a se stessa? Somiglia forse il Chisciotte di Menard al Chisciotte di Cervantes? E all'inverso: non somiglia forse la ballerina al fiore e la danza agli astri? E non si tratta evidentemente di una somiglianza immateriale? E questa somiglianza non si mostra proprio perché la ballerina rimanda anzitutto a se stessa, e solo così al fiore e alle stelle? E non illumina, questa somiglianza, mostrandosi, il senso, l'essenza di entrambi, della ballerina e degli astri, del corpo e del fiore, della danza e del movimento delle stelle?
PERIODO B
Il nesso tra la sfera somatica dell'autore e la fisionomia della sua opera è una somiglianza immateriale. Esso non esisterebbe se il ritratto non lo mostrasse. Ma il ritratto non fa che ricordarlo. Lo afferra di colpo, fulmineamente, lo fissa o mobilita in forma, non lo inventa. In tal modo, però, fa più che limitarsi a ricordare. Più precisamente, il ritratto – e ciò vale per il ritratto in generale, non solo per quello di un autore, perché l'opera non è la sola cosa che passa per l'uomo, ma, al limite, volta a volta, perfino l'uomo stesso – oscilla sempre tra creazione e ritrovamento della fisionomia. Il ritratto è sempre un pendolo tra invenzione e ricordo di una somiglianza, di un nesso, di una fisionomia, che, circolarmente, può emergere solo attraverso di esso.
PERIODO A
Oh sì, amico Pozzo, foggiato a immagine e somiglianza di pozzo, caro vecchio ammanco pozziforme, buco della serratura che tu stesso sei, il ritratto è più vicino alla pareidolia che alla consapevolezza. Il suo senso è il paradosso di una pareidolia consapevole. La sua pretesa di senso in quanto forma – rispetto al non senso della informe vita ritratta – tradisce continuamente la sua parentela con l'aberrazione. Come l'autore, il ritratto è più vicino all'aberrazione che all'intenzione. D'altronde la sua pretesa di coerenza non è più infondata di quella di ogni possibile volontà – foss'anche minuscola.
PERIODO B
Il nostro ritratto di Poe – che significa: il ritratto che facciamo di noi attraverso Poe, e qui deve esser Poe a parlare attraverso di noi non meno che noi in occasione di lui – ha i tratti somatici essenziali di Poe: la fronte immensa e bombata da tursiope goloso di Whisky, l'occhio cerchiato da occhiaie perenni, il corpicino ossuto e ricurvo, ovvero i riccioli inanellati come vertebre temporali; il tutto tenuto insieme da magneti che fungono da catalizzatori mesmerici – omaggio a Valdemar.
PERIODO A
Ma il ritratto mostra anche l'essenziale dell'opera di Poe: la scoperta del pozzo e del pendolo. Lo mostra nell'unico modo possibile: inscenandosi come pozzo e pendolo. E dunque essendo, già da sempre – in quanto forma-ritratto –, pozzo e pendolo.
PERIODO B
Il pozzo e il pendolo attraversano tutta l'opera di Poe. L'uno è il rovescio dell'altro.
PERIODO A
Il pozzo è il rovescio speculare del pendolo.
Estremi del pozzo: il seppellimento prematuro e la bocca, la fauce, il buco dentato.
PERIODO B
Tomba e bocca, fauce e fossa, in quanto estremi del pozzo, sono l'uno l'anamorfosi dell'altro. L'asse del reciproco ribaltamento è la morte, secondo una logica propriamente inumana per cui sono i vivi ad esser inumati ed i defunti ad esser riesumati. Non a caso Berenice viene estirpata dalla tomba-gengiva perché possano esserle strappati e riportati alla luce i denti scintillanti, e non a caso i denti del gatto nero sfavillano quando viene sottratto al seppellimento prematuro, condannando a morte il suo seppellitore. La psicoanalisi non ha nulla a che fare con tutto questo. La vagina dentata è solo un caso particolare del pozzo, non viceversa. L'archetipo è il pozzo, non la vulva. La vulva è simbolo del pozzo, aspirazione al pozzo, nostalgia di pozzo, invidia di pozzo, non il contrario.
PERIODO A
Il pendolo è il rovescio speculare del pozzo.
Estremi del pendolo: il pallone aerostatico e l'occhio.
PERIODO B
Che il pallone aerostatico sia una variante del pendolo in quanto scansione del tempo è mostrato in Tre domeniche in una settimana, e il suo legame simbolico con l'occhio è chiarito dal bulbo-mongolfiera di Redon, non meno visionario di quello di Hans Pfaal. Del resto l'occhio del vecchio nel Cuore rivelatore è sin dall'inizio legato al battito maniacale del suo cuore/pendolo – e ogni cardiografia mostra il legame immediato tra scrittura e pendolo. Dunque: pendolo/occhio celeste e pendolo/occhio sepolto. Il loro campo visivo strabico: la scrittura. Stilo e stile: occhio tagliente, occhio bisturi, occhio che squarta e notomizza. La psicoanalisi non ha nulla a che fare con tutto questo. Il pene, come pure la penna è qui solo un caso particolare del pendolo, non viceversa. L'archetipo è il pendolo, non il pene o la penna. Il pene/penna è simbolo del pendolo, aspirazione al pendolo, nostalgia di pendolo, invidia del pendolo, non il contrario. D'altra parte l'oscillazione del pendolo sul pozzo è nulla meno che l'archetipo di ogni possibile titillamento, inclusa la lettura – e anche ora, o Pozzo osceno, o calo d'animo, o calamaio, tenera metafora di metafora di un'orbita vuota, non oscilla forse il tuo occhio da una parte all'altra, come un pendolo, seguendo le righe sospese sul ben altro abisso che tu stesso sei?
PERIODO A
Gli estremi del pozzo e del pendolo, come poli magnetici, generano i campi di forze che innervano l'opera, il corpus di Poe, le linee che intessono il suo ordito immateriale, come pure la cosmogonia di Eureka.
PERIODO B
Il racconto Il pozzo e il pendolo è solo un caso esemplare della intuizione fondamentale filtrata, oscillata attraverso Poe: ogni cosa che il nostro occhio guarda, e soprattutto ogni cosa che il nostro occhio non guarda, può essere una botola, un pozzo, l'orlo di un abisso.
PERIODO A
Il che significa proprio il suo apparente, o meglio inapparente contrario: l'evidenza dell'abisso in quanto abisso dell'evidenza (ciò che appunto sarà più evidente man mano che ti inabisserai, o Pozzo).
PERIODO B
La lettera rubata è solo una variante psicologica di questa intuizione, un divertissement da Rue Morgue. Così come i casi di Toby Dammit e Psiche Zenobia sono amene variazioni sul tema della fantasia di castrazione legata al terrore originario del pendolo (la ghigliottina-pendolo de La falce del tempo; la corda tesa di Mai scommettere la testa col diavolo: qui il pendolo stesso si disarticola e la massa, la testa, rotola via tra le mani del diavolo, il separatore, appunto). Una discesa nel Maelström, d'altro canto, è la declinazione avventurosa della vertigine del pozzo, e L'isola della fata la sua delicata allegoria.
PERIODO A
Ogni cosa, si diceva, può essere un pozzo, un gorgo, un abisso. Ma il vero terrore per l'uomo non è cadere nell'abisso, bensì restare eternamente sospeso su di esso – esser pendolo.
PERIODO B
Il terrore di Roderick Usher. Ma soprattutto il nucleo del racconto La verità sul caso del signor Valdemar, rovescio speculare de Il pozzo e il pendolo. Anche in questo caso si parte da una condanna a morte – la malattia del protagonista – e da un pendolo, il movimento ipnagogico del mesmerista. Ma il protagonista stesso diventa pendolo sospeso sull'abisso dell'aldilà, sul pozzo dell'altra parte. E la liberazione è null'altro che una morte già avvenuta, l'arresto di un arresto, la fine di una pausa putrefattiva – secondo la più pura inversione logica del seppellimento prematuro (morte senza corruzione come ribaltamento della corruzione di un non ancora morto).
Pendoli tra la vita e la morte, o meglio tra una vita e la sua ripetizione, passando per la morte, sono ovviamente anche Ligeia e Morella – ritratti da intendersi come allegorie del ritratto.
PERIODO A
Se il pozzo è l'abisso che ogni cosa può essere – come l'abisso può essere ogni cosa –, il pendolo è il nostro occhio, sospeso sull'abisso, oscillante sulle cose. Ovvero: l'abisso non è celato dietro o sotto ogni cosa, piuttosto ogni cosa è l'abisso – come l'abisso è ogni cosa. Nulla è nascosto, e proprio questo è l'abisso vertiginoso, il Maelström, ciò che il nostro occhio non vede pur stando sospeso su di esso.
PERIODO B
Il terrore dell'abisso è la nostalgia più acuta dell'abisso (la vertiginosa iperacutezza dei sensi di Roderick Usher). Di qui il moto ondoso dell'occhio, il suo malinconico dondolare su ogni cosa, il suo esser pendolo.
PERIODO A
Un ritratto è sempre il ritratto di un questo, il ritratto di qualcuno o qualcosa nel suo esser questo e non altro, il ritratto di una «cosa» nella assolutezza della sua particolarità e contingenza, nella sua unicità e nella sua caducità assolute.
PERIODO B
È irrilevante, o Pozzo, e tu lo sai (e soprattutto non lo sai) più profondamente di chiunque altro, che questa particolarità sia fisica o psicologica, come è irrilevante che la contingenza del soggetto ritratto sia quella di un'ora o di una vita.
PERIODO A
La pretesa del ritratto è nulla meno che la pretesa dell'assoluto; pretesa doppiamente paradossale, perché l'assoluto cui tende è appunto quello del particolare – il questo come unico assoluto possibile.
PERIODO B
Una cosa nel suo esser questo: una cosa nella sua assoluta contingenza, nella sua particolarità, e allo stesso tempo – al di qua del tempo – nella sua essenza più profonda, nella sua unicità, nel suo esser assolutamente questo e non altro.
PERIODO A
Possiamo dubitare che esistano una coscienza assoluta o un'incoscienza assoluta, un bene assoluto, un bello assoluto, un male assoluto, e perfino un assoluto in sé; ma possiamo dubitare dell'assolutezza del questo, del suo urto? E possiamo dubitare che in tale assolutezza essenza e contingenza coincidano?
PERIODO B
In quanto questo, il particolare non può trascendersi che in se stesso. L'al di là e l'al di qua di questa cosa è questa cosa. Ed è ciò che ci urta come interna eccedenza dell'estremo dubbio, oltre l'estremo dubbio come suo al di qua. Il questo si manifesta necessariamente come assoluto, o non si manifesta; e in quanto assoluto si impone come sovrapposizione di essenza e contingenza. Circolarmente questa sovrapposizione è la forma della sua assolutezza, non la sua mera conseguenza.
PERIODO A
Esperimento. Prendi una penna, o Pozzo d'inchiostro, mettila davanti alla tua nera apertura e guardala; prova a darle un nome. Non il nome comune «penna», sciocchino che non sei altro, ma un nome proprio, un nome che dica quella penna nel suo esser questo. Impossibile vero? Non sgusciar via, o Pozzo di incoscienza, o parodia di ombelico, piccolo vuoto di terra scacciato dal paradiso dei nomi propri, dicendo che quella assolutezza è un gioco di superficie del linguaggio, che quella indicibilità stessa è un residuo paralinguistico, una sovrapposizione di diverse dicibilità o un margine oscuro di indicibilità ritagliato dai bordi di diverse dicibilità (nomi comuni).
PERIODO B
È vero il contrario: ammettiamo pure, o Pozzo, che grazie al linguaggio possiamo ritagliare dal magma informe del tuo oscuro mondo una penna; ciò non rende meno assoluta l'indicibilità del suo questo. Semplicemente: in occasione del nome comune «penna» possiamo scorgere un questo, il questo di questa penna, e così ci accorgiamo del suo urto silenzioso – ma quel questo precede e sempre precederà ogni nome comune. Semmai è il suo «seguire», il suo venir dopo un'impressione prodotta dal nome comune, un gioco di superficie a posteriori del linguaggio. Il questo è immediato, assoluto, assolutamente semplice, di una semplicità che eccede la categoria linguistica del semplice.
PERIODO A
Non confonderti, o Pozzo: il questo non è il prodotto fittizio della tua umana, illusoria, finanche mitologica carenza di nomi propri – non più di quanto l'aroma del caffè o il gusto della mano amata siano prodotti dalla mancanza di nomi propri per definirli.
PERIODO B
Piuttosto: in occasione di un nome comune – attraverso la piccola porta, l'immane e infinitesimale botola della cosa comunemente nominata – il nostro occhio può soffermarsi sulla cosa in quanto questo. In occasione del nome comune – la forma del pozzo, i margini del pozzo – l'assoluto silenzioso del questo risale puntualmente dal fondo della superficie come abissale, edenica richiesta di un nome proprio.
PERIODO A
(Quel che segue non è una ripetizione. E d'altra parte cosa potrebbe essere, altrimenti, posto che l'inizio è già un ritorno?).
PERIODO B
Abbiamo detto che il ritratto è doppiamente votato allo scacco: in quanto particolare che tende all'assoluto e in quanto tende ad un assoluto – il questo – che è l'assoluto del particolare.
Vi è un aspetto meno ovvio – più inappariscente – di questo paradosso. A differenza di ogni altra immagine del mondo, il ritratto non rimanda a quella cosa, ma a questa cosa, alla cosa nel suo esser questo. D'altra parte, ogni ritratto, come ogni immagine del mondo (→), deve rimandare anzitutto a se stesso per poter rimandare ad altro. Per dire il questo, ossia l'altro dal ritratto, il ritratto deve dire se stesso, ossia altro, altro dal questo. Tentando di dire il questo il ritratto non può evitare di dire altro dal questo, e cioè se stesso in quanto questo altro.
Il che significa tre cose:
1) il ritratto oscilla come un pendolo tra sé e l'altro, tra il suo non esser questo e il suo esser questo;
2) quanto più il ritratto è perfetto tanto più esso scava al suo interno un abisso, un pozzo – un pozzo che d'altra parte è tanto più profondo quanto più evidente diviene l'impossibilità di distinguere tra il questo (della cosa-ritratto) e il questo (della cosa ritratta).
Singolare pozzo, in tal senso, è il ritratto ovale – il ritratto ovulo, il ritratto più che embrione.
La donna ritratta è caduta nell'abisso, nel pozzo del suo ritratto. Qui la distanza è annullata, l'embrione è ritornato uovo. Il pozzo estremo coincide con l'estremità del pozzo – il pendolo. Il pozzo si è chiuso in uovo impenetrabile. Il racconto è un esperimento mentale: cosa succederebbe se un ritratto raggiungesse l'assoluto, se rappresentasse senza residui il questo del suo soggetto? Risposta: la morte al mondo – a questo mondo – del soggetto ritratto, la chiusura del pozzo come arresto definitivo del pendolo, l'uovo – il perfetto, metafisico uovo-pendolo di Piero della Francesca. Il soggetto ritratto potrebbe esistere ormai come questo solo nell'immagine.
L'esatto inverso della fine dell'eroe tragico.
Nel cerchio mitico della tragedia il particolare – l'immagine – viene annichilito dall'incontro con l'assoluto. Nell'utopia del Ritratto ovale si realizza l'assoluto del particolare attraverso l'immagine, per densità assoluta di immagine – immagine piena come un uovo.
3) Quanto più profondo è l'abisso, il pozzo, tanto più esso è inapparente, perché in fondo è proprio questo essere inapparente, questo essere invisibile per eccesso di evidenza, la sua abissalità.
PERIODO A
Il paradosso del ritratto è analogo a quello del saggio, o Pozzo.
Il saggista ritrae se stesso in occasione di altro.
Non sono forse i saggi de L'anima e le forme anzitutto ritratti del giovane Lukács?
Oh sì! Anche il saggio deve rimandare anzitutto a se stesso per poter dire l'altro.
E anche il saggio, in quanto forma, coglie l'altro, il già esistente, il particolare, il contingente, la non forma, come occasione per dirsi – in modo tale che in questo dirsi in occasione di altro si mostra qualcosa che eccede entrambi (il dire e la sua occasione).
La somiglianza con l'oggetto che il saggio inscena è un'occasione per mettere alla prova la sua forma – forma indicibile, in quanto limite e presagio del sistema, dell'esplicitezza. Il saggio può dirne, non dirla; così come il ritratto può essere somigliante, ma non ritrarre la somiglianza. La forma paradossale del saggio è cogliere l'essenziale in occasione del contingente, attraverso il contingente, in quanto identità/differenza rispetto ad esso. Se il saggio potesse dire questa forma, che è un paradosso, si annullerebbe come paradosso e come saggio. La sua necessità in quanto forma è tutt'uno con l'indicibilità della sua forma, ovvero con la sua necessità in quanto saggio particolare, con la sua occasionalità.
PERIODO B
Il saggista sa che l'essenziale e l'inessenziale, il senso e il non senso non coincidono. Ma sa anche che non sono separabili, che non si può cogliere il senso dietro i fenomeni, ma solo attraverso di essi. L'essenziale passa necessariamente per l'inessenziale, il senso per il non senso, come una identità che è anche una interna differenza. Questo sapere è ciò che il saggio volta a volta mette in scena. Il suo rischio ad un tempo etico ed estetico.
PERIODO A
Proprio perché la sua necessità coincide con la sua occasionalità, volta a volta, di occasione in occasione, il saggio mette in gioco la sua essenza. Essa è identica e allo stesso tempo differente rispetto al particolare (il saggio e il suo oggetto).
Qual è allora l'essenza che il saggio scopre ogni volta e per prima, se non l'azzardo della sua stessa forma, la sua identità/differenza rispetto all'inessenziale, al non senso? Cosa arresta e muove il saggio di occasione in occasione se non il paradosso della coincidenza di invenzione e ritrovamento di un senso che è anzitutto – in senso trascendentale – il suo senso in quanto forma, forma-saggio?
PERIODO B
Il saggio sul ritratto mima il ritratto, si fa somigliante al suo oggetto, e in questo modo rischia la sua forma. Che questa forma sia analoga a quella del ritratto, che la forma del ritratto, così come il saggio la assimila, sia somigliante a quella del saggio, è il grande rischio, il pozzo, l'incertezza che il saggio, in quanto pendolo, non potrà mai superare se non nel suo impossibile ritratto.
PERIODO A
Impossibile che il saggio sul ritratto si superi in ritratto di saggio, o Pozzo, o vocativo, o questo me, o mio questo.
Come è impossibile per me raggiungerti.
Perché sono sospeso su di te, come un pendolo.
Come il saggio è sospeso sul ritratto.
PERIODO B
Come pendolo.
Pencolo su di te.
Aspiro a te, o Pozzo.
Mio questo.
Mi stiro.
Mi stendo.
Mi allungo.
Mi protendo.
Mi estrofletto.
Ma per quanti sforzi faccia, non potrò mai sporgermi più di quanto tu possa ritrarti.
Perché questo ritrarti è sempre anche il mio ritrarmi.
E quello che resta di ogni tensione, di ogni intenzione, è solo oscillazione.
Tra me e me.
P(o)endulum
(2012) Bronzo lucidato a specchio
Rivestimento DLC (Diamond Like Carbon) nero
Particolari in bronzo cromato
Base in acciaio lucidato a specchio
Corpo in 11 parti, 4 tenute insieme da magneti
Occhio-pendolo mobile
38 cm (h) x 30 cm x 8,5 cm
Fonderia Bonvicini (Verona)
Rivestimento DLC effettuato presso STS Group (Bologna)
Elaborazione CAD-CAM di Manlio Santoro (Roma)
Prototipo realizzato con CNC presso il centro prototipazione di Fabio Pertot (Milano)
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