Toṭ holokaust, ovvero: appunti per una filmografia circolare

Trama:

Il film si apre con un’orgia immonda, ma inevitabile. Quattro camene à poil armeggiano volenterose intorno a un vecchio sfasciato dal naso adunco, un diabetico primevo e scucchione, che occhieggia e frinisce macilento. Tutti si prodigano per l’orgasmo di lui, incluso il vecchio. Primissimo piano del glande verdognolo e squamoso. Squittii. Gorgoglii. Piccole scoregge maschili. Melma. Il primo e unico fiotto iperglicemico sbianca l’occhio vitreo della telecamera.
La scena si liquefa.
Quattro studentesse della «Sapienza», identiche alla quattro del baccanale, hanno ottenuto una sovvenzione universitaria per una spedizione in Amazzonia. La professoressa aggregata Silvana Cirese-Mangano, una lesbofemminista maggiorata che colleziona shorts fiorati anni settanta e cattedre di antropologia culturale, guiderà il gruppo. La telecamera sfoca sul primissimo piano del tessuto fiorato degli shorts della Cirese-Mangano, risucchiato, per pressione oncotica, nel solco culino della medesima, preistoricamente beante di beato umidore estivo.
L’immagine si ricompone su un bouquet naturale di Heliconia Velutina rugiadosa della foresta brasiliana. È l’avvento a Manaus.
Le quattro laureande zampettano ora, irresistibilmente nude e odorose, nella suite «Celestial» dell’Hotel Ariau, spruzzandosi al ralenti di Dom Pérignon Vintage White Gold Jeroboam del ’95 con le rispettive vagine, secondo il principio base del remuage sur pupitres. Ben presto la testa minore dell’una scompare nell’orifizio maggiore dell’altra, mentre sul soffitto e sulle pareti della suite si moltiplicano e sovrappongono senza requie, diffuse da una lanterna magica Reuge, immagini di Pierre Molinier, Hans Bellmer, Harukawa Namio e Yoshifumi Hayashi. La gioia promana dallo schermo, inondando la sala cinematografica di liquor veneris e sciampagna. Rientro nella suite. Al groviglione si aggrega fatalmente la professoressa aggregata Cirese-Mangano, sommariamente abbigliata da suora vincenziana. La professoressa aggregata reca con sé, sotto il cappellone bianco previamente imburrato, un dildo corvino dal cappellone pure imburrato, e il disco in vinile de El negro zumbon, cantata da Silvana Mangano. Parte il motivetto, mentre le quattro si dispongono gaie in postura a un tempo probatica e abrobatica. Dissolvenza sui culi a mandolino, che accompagnano, boccheggiando analmente come carpe koi golose di latte umano, la dissolvenza della smandolinata finale dello zumbon.
La nebbia filmico-sfinterica si ricompone in un nitido primo piano vegetale: la configurazione anale, soavemente villosa, del gineceo apocarpico di un Helleborus Orientalis. Allargamento. Interno foresta amazzonica. Inizio della spedizione.
Le cinque stupidine si trastullano squartando rare testuggini fluviali e scimmiette Uistitì, e abbattendo Ara protetti con fucili a dardo, per poi divorarne i cervellini in funzione afrodisiaca. Impressionante la sequenza in cui la Cirese-Mangano mixa i cerebelli in una coppetta d’osso ottenuta dal cranio spolpato di un maialetto locale, utilizzando a mo’ di frullino la vibrazione circolare del suo dildo a batteria. Analogamente ella vellicò un tempo la prostata ipertrofica del suo primo boy-friend – un politico di centro dagli occhi incredibilmente simili alle ghiandole del Bartolini, ma dagli irresistibili agganci accademici. Breve flashback malinconico della manovra prostatica e della conseguente nomina universitaria della Cirese-Mangano. Festeggiamenti materni in casa Cirese-Mangano: zoom su fiaschi ricoperti di similpaglia, mucchi polverosi di calze maschili rancide, incerata a quadretti bianchi rossi e verdi, bicchieri di coccio trasparente sfavillanti alla luce di lampadine a basso consumo. Ritorno al presente nella selva. Le ragazze, ormai carburate a dovere, si abbandonano alle innegabili delizie del tickling.
Dopo quindici giorni di pappine di cervello al limone, cunnilinguus sedentario e immobilità da bondage forestale, le nostre eroine sono colpite da stitichezza incalcolabile. Decidono così di perlustrare la selva alla ricerca di larve di Titanus Giganteus, il cui pesto, come noto tra i gays amazzonici, rappresenta il più efficace e a un tempo soave lassativo del mondo.
D’improvviso le studiose si imbattono in un villaggio di antropofagi esclusivamente maschi, in astinenza sessuale praticamente da sempre. Gli indigeni venerano una statua lignea rassomigliante in modo impressionante a Totò, ostentando falli da alano arlecchino, cioè pezzati in bianco e nero.
Le cinque, sopraffatte da ridarella contagiosa, vengono immediatamente scoperte e catturate, denudate, immobilizzate, appese per i seni a mezzo di ganci in osso di facocero, sodomizzate, rivestite, schiaffeggiate, ancora denudate, frustate, dipinte con escrementi, rivestite, prese a calci nel culo, ridenudate, marchiate a fuoco sulle chiappe e violate da ciascuno dei membri della tribù. E questo solo come preliminare. Le scene di sesso selvatico sono accompagnate dal solito motivetto de El negro zumbon, stavolta nell’interpretazione altamente straniante di Amalia Rodrigues.
Proprio quando le cinque cominciano a pensare che i cannibali siano in fondo persone civili, ecco che questi ultimi decidono di mangiarsele. Ma, circolarmente, proprio quando le donne cominciano a intuire che i cannibali le mangeranno, ecco che questi, ad uno ad uno, stramazzano a terra morti: il loro sistema immunitario, in fondo naif, non era preparato al mix di batteri vaginali accademici delle studiose. Le sopravvissute approfittano della strage per razziare le povere capanne.
Ed è appunto mentre le laureande stanno spolpando la vecchia scimmietta da compagnia dello stregone, che l’aggregata Cirese-Mangano viene sorpresa dal dubbio fondamentale. Cosa cazzo ci fa un Totem di Totò nel cuore della foresta amazzonica? E perché venerarlo? E soprattutto: chi scriverà per lei un articolo grammaticalmente corretto sulla questione?
A questo punto la scena si deforma. Tutto viene risucchiato in un punto: la pupilla dello stregone in primissimo piano. L’occhio spalancato dello stregone nell’istante in cui si risveglia con un urlo. Era solo un incubo dello stregone. Ma ecco che l’immagine si disgrega all’improvviso: tutto viene risucchiata ora nella pupilla dell’aggregata Cirese-Mangano, che si risveglia con un urlo nel suo letto. Era tutto un suo sogno. Anche il sogno dello stregone. Ma ecco che la scena viene ulteriormente risucchiata nella pupilla di un vecchio spettatore dal naso adunco, che si risveglia di soprassalto in sala, al termine dalla proiezione del film Totò holokaust, di cui vediamo scorrere i titoli di coda (musica finale: ancora El negro zumbon, cantata questa volta da Wilma de Angelis). Ma ecco che la scena viene risucchiata nella pupilla del regista, che si risveglia urlando nel suo letto, insieme alla professoressa, allo stregone e al vecchio spettatore dal naso adunco e scucchione, dopo aver sognato il film che ancora deve realizzare. Primo piano sul globo vetroso nero della telecamera, su cui si riflettono, miracolosamente sovrapposte, le due immagini di un poster di Totò, appeso nella stanza del regista, e di un teschio, appoggiato sulla sua scrivania. Il globo è appena velato dallo sperma ancor brillante del vecchio. Primissimo piano degli spermatozoi boccheggianti.

Il regista:
Lukino Ananía è nato a Roma nel 1945. Assistente e amico di Alberto Cavallone, è autore di oltre 100 cortometraggi underground e di tre lungometraggi (noti): Totò holokaust, Il collezionista di locandine, Magnàte. L’ultimo suo film, una versione hard-core del Paradiso di Dante, in 33 tempi è rimasto incompiuto. Assai meno conosciuto di Cavallone, anche dagli addetti ai lavori, è tuttavia forse perfino più interessante di quest’ultimo, sia dal punto di vista tecnico (virtuosistico uso della camera e straordinaria padronanza della gamma luminosa), sia per la capacità di coniugare la libertà di un estremo surrealismo visionario con il rigore di una ferrea impalcatura concettuale. In Ananía – che non a caso è fine studioso di teoria del cinema e autore di svariati saggi su Deleuze e Benjamin – la libertà dell’immagine filmica non è mai fine a se stessa, ma rappresenta paradossalmente il medium necessario di una riflessione sulla sua stessa possibilità: possibilità estetica – che ha il suo banco di prova nell’accumulo straniante di citazioni, ovvero nel disseccamento metaforico dell’icona falsamente popolare – e possibilità propriamente politica – verificata attraverso il concetto di derivazione deleuziana di filmografia «minore», come riconquista dell’elemento autenticamente popolare sul limite della linea di più alta tensione satirica. Come è stato detto a proposito delle opere di Ananía – e il discorso vale in particolare per Totò holokaust –: «La satira immaginale sta all’immagine satirica come la riflessione sulla possibilità dell’immagine sta alla sua critica ironica» (J.-M. Rey).

Interpreti (non professionisti):
Antongiulio Merendino-Olivetti (il vecchio)
Petra Marrone (professoressa aggregata Silvana Cirese-Mangano)
Sara Merker (laureanda 1)
Giulia Montani (laureanda 2)
Stefi Ferraris (laureanda 3)
Mirka Verra (laureanda 4)
Cosetta Gonzo Borutti (vecchia prostituta, mamma della professoressa aggregata Silvana Cirese-Mangano)
Max Montani (stregone)
Sperma (spermatozoi)
Bestiole uccise (animali)



    





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